La sposa col nastro blu – di Valentina Cebeni

Come far esprimere al meglio ad uno scrittore il suo sentimento verso il cibo? Attraverso una scritto, un racconto – o una short story per darci un tono. Intendiamoci, scrivere un racconto non è affatto facile per un autore che normalmente si cimenta con romanzi che sviluppano trame e personaggi in centinaia e centinaia di pagine, ma noi abbiamo ci provato.

Qualcuno ha detto di no, altri hanno accettato, ignari…Coloro che hanno raccolto questa sfida riceveranno un doppio plauso, per essere stati intrepidi nel ridurre in poche righe la propria voglia di raccontare e per aver avuto coraggio di rischiare di finire in un pentolone fumante.

La prima temeraria autrice è Valentina Cebeni, scrittrice di romance, romana con il mare della Sardegna nel cuore. Amante della cucina di cui si è innamorata follemente proprio per riscoprire i legami con le radici della sua famiglia, è anche e soprattutto una lettrice accanita, che approda alla scrittura dopo lunghe peregrinazioni tra i grandi maestri della letteratura e maratone estive de La signora in giallo. Valentina coltiva sin dall’adolescenza la passione per la scrittura con la disciplina di un monaco tibetano, decisa a indagare attraverso le voci dei suoi personaggi fra le pieghe dell’animo umano. Il suo in primis. Nel 2013 pubblica il suo romanzo d’esordio, L’ultimo battito del cuore con Giunti Editore. A Febbraio 2016 esce in libreria il suo nuovo romanzo La Ricetta Segreta per un Sogno, edito da Garzanti.

Di seguito il suo racconto scritto per  i CANNIBALI VEGETARIANI.

LA SPOSA COL NASTRO BLU
Valentina Cebeni

Racconto

Oggi mi sposo. La tradizione impone che la sposa indossi qualcosa di nuovo, di blu e di prestato. Io non ho mai creduto a certe tradizioni, ma quando l’ho detto a mia nonna lei mi ha intimato di non sfidare la sorte. “Ci sono regole che sono state scritte prima di noi, e dobbiamo rispettarle”; me lo ripeteva sempre, quando alla vigilia di ogni esame la vedevo accendere una candela e bisbigliare una preghiera. Per anni ho creduto che il buon esito dei miei studi fosse dovuto al mio impegno, ma oggi, ora che seduta davanti allo specchio davanti a un’altra me, più bella, radiosa e un po’ spaventata all’idea di cambiare vita, stringo fra le dita il nastro di raso blu in cui agli albori del ‘900 era stata avvolta la sua corona di pane nuziale, come si usava al suo paese, sento che c’era molto più di qualche preghiera in quel gesto.
C’era la speranza, sogni affidati, pensieri, battiti e sospiri. Gli stessi che oggi per ironia del destino affido alla schiena del mio quasi marito, quando lo saluto nella gelida sala partenze dell’aeroporto pronto per andare a salvare qualche povera creatura in un angolo sventurato di mondo. È un medico, conosciuto il giorno in cui uno tsunami investì il villaggio vacanze in cui avevo deciso di spendere il bottino della mia festa di laurea. Un viaggio da sogno trasformatosi in un incubo per molti, ma non per me che in tutta quella devastazione ho trovato il senso della vita. Ho respirato morte per giorni, laggiù, ma anche tanta umanità, tanto calore sbocciato fra sconosciuti come l’arcobaleno dopo il temporale che non ti aspetti.

Ho visto donne che stringevano forte al petto figli che non erano loro, come se fossero sangue del loro sangue, che portavano bidoni di caffè per i medici al lavoro H24 e vestiti puliti ai degenti. Ho visto più vita, pietà, fratellanza fra quelle facce sporche di fango che in trentanni di attività nel volontariato del mio quartiere radical chic. E poi ho visto lui, l’uomo di cui fra qualche ora acquisirò il cognome, che ha usato la scusa della mia ferita alla testa da controllare per tornare a trovarmi ogni giorno.

Ero affidata a bravi medici, eppure il mio cuore ogni volta che lo vedevo affacciarsi alla porta saltava di gioia. Ricordo la sua prima visita, la ricordo come fosse ora: entrò, mi visitò, ci raccontammo la vita, ridemmo tanto, e quando con una battuta mi disse che mi trovava sciupata, perché non mangiavo a sufficienza, lo vidi tirare fuori dalla sacca che portava appesa alla spalla una corona di pane avvolta in un nastro blu. Un pane secco, nero, quasi immangiabile, diventato per me il simbolo della rinascita, del nostro neonato amore vestito di blu. Lo stesso blu oltremare che ora fascia le mie dita, che lui intrecciò al mio anulare quando mi chiese in sposa, che oggi intreccio al mio cuore che canta felice la promessa di un’eterna primavera. Perché l’amore nasce ovunque, nel fango, in una stanza d’ospedale, nei sorrisi della gente semplice. In una corona di pane che si rincorre nel tempo di un sentimento infinito, di cui noi siamo impasto e magia.

Grazie Valentina!

Intervista a Valentina Cebeni

R: Perché nei tuoi libri parli di cibo? Mi riferisco soprattutto a La ricetta Segreta per un Sogno.

V: La cucina è per me un linguaggio che corre parallelo a quello delle parole, con la sua grammatica, regole e sintassi, e come dei versi ben scritti è in grado di regalare emozioni profonde, di aprire cassetti della memoria (ce la ricordiamo tutti la madeleine di Proust, vero?) che eravamo convinti di aver chiuso a chiave per sempre, e travolgerci con ricordi e nostalgie. Per questo amo la cucina e amo scriverne nei romanzi, perché trovo che attraverso la descrizione di un piatto, della sua preparazione, io possa trasmettere ai lettori il reale sentire dei miei personaggi, possa comunicare con loro a un livello più profondo, quasi inconscio. E poi la cucina è magia, e quale libro meriterebbe di essere letto se non ha un pizzico di dolcissimo incanto?

R. Ah le autrici romance sono dolci come i loro scritti! Che tipo di cuoca sei, improvvisatrice o scientifica?

V: Definirmi cuoca è un grande passo avanti! Diciamo che sono più una cui piace scoprire nuovi sapori, sperimentare anche a costo di combinare disastri immangiabili (e ne ho cucinati!), ma ci sono dei casi, delle ricette, e mi riferisco in larga parte a quelle di pasticceria, che al contrario richiedono un rigore estremo, e allora lì bisogna che io domi lo spirito anarchico che è in me e segua le regole. Perciò, per rispondere alla domanda, sono un po’ Dottor Jekyll e Mister Hyde…anche se sino ad ora non ho ucciso nessuno. Almeno spero!

R: Romance con omicidio? Be’ sarebbe una nuova frontiera della letteratura. Qual è il tuo piatto preferito?

V: Ahimè non ho un piatto preferito, uno per cui farei follie, lo confesso. Sono assolutamente certa che esista, un po’ come il grande amore, ma credo sia da qualche parte insieme al mio principe azzurro, in attesa che io li scovi entrambi. Ciò vuol dire che non lo scoprirò mai! R: Hai tempo, sei ancora terribilmente giovane.

Quale ricetta vorresti fare ma proprio non ti viene mai?

V: Sogno dal momento in cui l’ho visto in una puntata di Desperate Housewives di preparare il croquembouche, ma ancora non ho avuto il coraggio di cucinarlo, anche se mi sto preparando: ho imparato a fare i bigné, anche con discreti risultati, la crema, la chantilly, ma il caramello è ancora oggi il mio tallone d’Achille. Una volta imparato ad arte, però, non mi fermerà più nessuno! Ok, tutti a mangiare i croquembouche da Valentina – una volta che avrà imparato! Grazie Valentina!

IL SECOLO XIX –

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